Navigare le emozioni: l’umanità nella guarigione oncologica

Intervista a Margherita Galli, psicologa e psicoterapeuta

Ogni storia porta con sé un successo, per me e per la persona che sceglie di affidarsi a me”. Margherita Galli, psicologa e psicoterapeuta, da anni lavora in Hospice e da tempo supporta le donne nell’affrontare la loro lotta contro i tumori. Il suo è un lavoro fatto di immensa gratitudine per le pazienti che decidono ogni giorno di condividere con lei il loro percorso, “perché ogni storia è ugualmente unica e preziosa ed il suo successo è insito nella sua unicità”. Per lei si tratta anche di una sfida quotidiana: quella di trasformare quel momento particolarmente difficile in un insegnamento, scoprendo risorse imprevedibili e ricchezze inaspettate.

Cosa ti ha ispirata a specializzarti come psicologa nel campo dei tumori femminili? In questo contesto quali sono gli aspetti più gratificanti che hai incontrato?

Parto dall’origine. Quando finisci la facoltà di Psicologia ti senti perso, più o meno come quando l’hai iniziata. Negli anni hai ricevuto tanti input e credi – come in ogni passaggio nodale della vita – che quello che sceglierai in quel momento sarà una sorta di sentenza, una decisione irrevocabile. Io mi sono laureata con una tesi sperimentale in Psicologia dell’Architettura e quindi spiegare come sono arrivata poi a specializzarmi in ambito clinico-oncologico potrebbe non essere semplice. In realtà inizialmente ho lasciato che il caso facesse la sua parte e così, mentre pensavo insieme alla mia terapeuta dove svolgere il lungo tirocinio annuale obbligatorio, ho accettato la proposta di fare richiesta nel reparto di Psicologia Ospedaliera di un importante Ospedale Bolognese. È così che ho conosciuto il mondo dei tumori femminili e nel posto in cui mi sarei dovuta fermare solo un anno poi mi sono fermata – almeno metaforicamente – per tutta la mia vita futura. Del resto, come insegna il film Tango a Parigi, perché si possa parlare di amore bisogna saper trasformare il caso in destino. Il mio con questo lavoro è un grande amore, fatto di tanta sofferenza ma soprattutto di un’infinita gratitudine reciproca.

 

Potresti descrivere dettagliatamente come fornisci supporto emotivo e psicologico alle pazienti durante la diagnosi ed il trattamento del cancro, magari condividendo una storia di successo o uno dei casi in cui il tuo intervento ha avuto un impatto positivo significativo?

Per rispondere a questa domanda devo fare una premessa. Già da alcuni anni lavoro in Hospice, luogo in cui solo in alcuni i casi i pazienti che seguo sono ancora sottoposti a terapie attive. Questo lo dico perché quello che mi interessa sottolineare è che il senso del mio lavoro non cambia in rapporto al setting. Questo significa che non c’è un “come” o un “modo” – né tanto meno un modo giusto o sbagliato – per farlo. Non è questo il punto nodale. Lo è, invece, il senso con cui lo si fa, che per me è quello di ricamare sempre il mio intervento sulla singola persona, che avrà sempre un bisogno diverso da tutte le altre. Il mio lavoro, quindi, avrà un impatto positivo significativo solo se io sarò capace di cogliere quella singolarità, quella specificità. Per questo motivo non mi sento di condividere una storia di successo. Ogni storia porta con sé un successo, per me e per la persona che mi fa il regalo di affidarsi a me, perché ogni storia è ugualmente unica e preziosa ed il suo successo è insito nella sua unicità.

 

Ci sono approcci o interventi psicoterapeutici specifici che hai trovato particolarmente efficaci per le donne che affrontano i tumori femminili?

Mi piace osservare sempre ogni cosa dalla prospettiva della complessità cercando di non tralasciare mai nessun aspetto. È vero che la patologia oncologica, come qualsiasi altra malattia, colpisce in primis la singola persona ma credo sia limitativo considerare quell’individuo avulso dal suo contesto di appartenenza, dalle sue relazioni sociali, familiari ed affettive. Penso, quindi, che un approccio psicoterapeutico efficace possa essere quello sistemico-relazionale perché, come dice il nome stesso, porta ad affrontare il problema in termini di sistemi e quindi a vedere sia la persona che si ammala come un unico sistema mente-corpo sia a considerarla in rapporto a tutti i sistemi con cui è reciprocamente interconnessa. Per lo stesso motivo credo possa essere molto efficace l’utilizzo di una pratica mente-corpo di consapevolezza come la meditazione, se usata ad integrazione e a supporto di ogni altro tipo di cura.

 

Come affronti l’impatto psicologico a lungo termine dopo il trattamento e quali risorse chiave o reti raccomandi per un sostegno continuo alle pazienti e alle loro famiglie?

La malattia non è un punto di interruzione della vita. È un punto sulla linea della vita. È uno dei mille eventi che ci accadono, è una delle nostre “innumerevoli morti” per citare il Professor Recalcati. È una delle nostre esperienze. Tutto sta nel darle un senso e nel capire, attraverso il dolore, cosa poterne trarre come insegnamento. Il supporto psicologico durante la malattia serve essenzialmente a questo e quanto più in quella fase si riescono a consolidare e ad interiorizzare insegnamenti ed abitudini più funzionali per la persona tanto meno l’impatto psicologico a lungo termine sulla persona malata sarà feroce. Durante la malattia, così come durante ogni evento traumatico della nostra vita, scopriamo di avere delle risorse che non avremmo mai immaginato di avere e sono proprio quelle dalle quali dobbiamo continuare ad attingere anche nel periodo successivo. Poi, durante la malattia, spesso la nostra vita si costella di molte persone nuove (perché il percorso terapeutico ti impone il contatto con associazioni, operatori sanitari, compagne di avventura). Ecco, tutte quelle persone credo siano le stelle di un nuovo firmamento. Sono le stelle che illuminano un nuovo cielo, diverso da quello che si guardava prima, ma non per questo meno bello.

Please open in latest version of Chrome, Firefox, Safari browser for best experience or update your browser.

Update Browser